SECONDA
STANZA.
LA
SCHEGGIA
N(eutro)
N(arrante). Quasi sull’orlo
dell’insignificanza, transitano: qui non è più l’abisso la sì, ma non ancora.
Essi avanzano, come prede attese al varco, varco che noi chiamiamo corpo
progettante in azione; il balzo in avanti pro-mette altre innumerevoli azioni
pro-gettanti, promette il luogo, il gesto ed il suo ri-flettersi inaccessibile
non accadente sulla soglia del corpo.
OI.
Caro mio potrei, però, sbagliarmi nel definire l’assoluta immobilità del nostro
discorso.
IO.
E allora perché dici così, perché dici della immobilità e poi ritratti? A me
pare che tu faccia un discorso doppio.
OI.
No, non dico questo, almeno non mi pare, tuttavia dobbiamo comprendere, se le
cose stanno come dici tu, di che doppio si tratta: ovvero cosa produce il
nostro parlare.
IO.
Insomma questo su e giù, questo qua e la mi fa venire il mal di testa:
decidiamoci una volta per tutte!
OI.
Lo so, la questione è decisiva, ed ora che ci siamo affacciati, coi piedi ben
piantati sopra questa soglia, possiamo solo voltarci indietro e … /interrotto bruscamente da IO/
IO.
Altolà!, amico mio, o tu o io, ma il più forte tra i due son io. Non ti
permetterò di tornare sui tuoi passi, se lo facessi non potresti più dire quel
che hai detto sin qui: altolà perciò!
OI.
Va bene, non farò alcun passo indietro, mi volterò soltanto per dire la soglia,
questo me lo concederai almeno?
IO.
Certo, è d’importanza decisiva che tu la dica: ma non un passo indietro, siamo
già oltre.
OI.
Altrimenti spariremmo, mente e corpo, ne sono consapevole; solo ora che la
vediamo la diciamo, ora che ci voltiamo, con essa alle spalle, anche noi
compariamo e comprendiamo: solo a partire da lei e dopo di lei possono emergere
i termini del nostro dire e del nostro fare questionante.
IO.
Dire la voce, dir con la voce, e rimbalzare di soglia in soglia ed anche il
corpo, qui, si sa non più soglia, distanziato com’è dal farsi continuo del
gesto vocale, e poi la voce; ora continua tu, io ti seguirò nell’oscillare tra
i due poli del già e non ancora.
OI.
Mi fa paura lo slancio oltre la soglia, quelle ambiguità ricorrenti, come gl’incubi
che facevo da bambino, vorrei poter pervenire ad un chiarimento definitivo,
vorrei dipanare le nebbie che mi costringono a capriole e capovolgimenti
continui, vorrei … strapparmi anch’io, dalle fauci, con un morso risolutore, la
voce: assolutamente fuori, assolutamente dentro.
IO.
Forse non è sul corpo che dovresti esercitarti a mordere.
OI.
Che intendi dire?, forse che dovremmo analizzare dal principio tutta la
questione?
IO.
Accomiatiamoci, amico mio, prendiamo le distanze: al largo da tutti quei gesti
che ci dicono addosso.
OI.
Bene, mettiamoci in cammino dunque.
IO.
Osserviamoci. Osserviamoci traccianti l’orlo sempre in azione, sempre
progettanti segni, circoscriviamoci inscriventi; queste azioni transitano
costantemente e puntano il dito, socchiudiamo un occhio, tenendo ben aperto
l’altro.
OI.
Che altro modo avremmo, dimmi, per disegnar per bene percorsi che ricamano il
limite dal di dentro, come fa un’esperta cucitrice che sa come muovere,
delicatamente, l’ago che traccia il suo “da dove viene” ed il suo “andare
verso”?
IO.
Occorrono occhi e dita delicate, amico mio, per tracciare, segnando, unità di
senso.
OI.
Come dice bene! E poi, in queste azioni, ci tocca transitare ancora e ancora
innumerevoli volte, come quando sui sentieri di montagna si segnano segni
traccianti il percorso e si mappano gli innumerevoli tracciati coi traccianti.
IO.
Comincio a sentirmi postumo, sempre in ritardo, seppur ad un soffio dal
prendere l’attimo e stringerlo tra le mani, ma mi scivola tra le dita tese, sul
filo della voce che rimane muta all’udire; rimango, così, solo ed al tempo
stesso sono come doppio, il mio doppio inallogabile.
OI.
La parola ci tradisce sempre, ci consegna nelle mani d’altri individui che ci
imprimono sulla fronte il segno de-finitivo, come fossimo un Caino qualunque.
IO.
E’ questo “Sigillum dei” che mi fa
paura, temere per il mio corpo, il mio proprio corpo: ecco ora sono nudo!
OI.
Questo segno dice per sempre l’assolutamente fuori e l’assolutamente dentro,
esclama: girati! Ecco, dunque, non sei più tuo soltanto, non sei più propriamente
tuo.
IO.
A questo non avevo pensato: se impicca te impicca chiunque!, ti stringe alla
gola e ti sospende lassù, in alto e in bella vista.
OI.
Che cosa sono mai disposto a fare,
anch’io, rispetto all’altro? Ho bisogno di emergere come corpo, finalmente
fuori di ogni corpo, finalmente riflesso dentro ogni corpo.
IO.
Se così non fosse non sapremmo più dove girar la testa; ma che è poi questo
saper girar la testa, e dove è riposto questo saper girare la testa? Io credo
aldilà, “fuori del mondo”, nel suo essere sempre aldiquà, “dentro del mondo”
per differenza.
OI.
Dunque, amico mio, nessun aldilà ha da venir di qua, nessun contraccolpo che
stia fuori/dentro, nessun rispecchiamento universalizzante?
IO.
Mi giro su me stesso, sicché ogni volta che parliamo mi ritrovo sempre nel
punto da dove ho cominciato, eppure la verità delle mie proposizioni mi sembra
duplice come terra tra due confini.
OI.
Traslochi dell’anima e nascondigli del corpo, una cinesi continua dell'energia posseduta dal corpo in funzione della sua
velocità, ecco cos’è per me un corpo: come terra tra due confini ove è
possibile registrare il transito dell’evenemenziale. Almeno a me così appare.
IO.
Ed il soggetto che lo porta, com’è? Il corpo in fondo, amico mio, non è forse
un essere senziente esposto/proteso ed esibito al di fuori?
OI.
Se il corpo è il soggetto, allora, può solo fondarsi in termini di risposta flessa
e riflessa: eccolo dunque senziente nel suo esporsi, ovvero essere esposto
esibente.
/silenzio/
IO.
E noi?
OI.
Che intendi dire con “noi”, non capisco.
IO.
Qual è la nostra parte in tutto questo?
OI.
La nostra parte?: quella del postulante.
IO.
Quindi siamo legati?
OI.
Legati.
IO.
Ma in che senso siamo legati, e come?
OI.
Mani e piedi!
IO.
Ma da chi? E poi, a chi?
OI.
Al tuo grand’uomo: a Godot.
continua